“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

sabato 29 dicembre 2012

Troppo Amici

Troppo Amici
Francia, 2009

Tre fratelli, molto legati, intrecciano le loro vite alla ricerca della realizzazione sociale di ognuno.
L'avvocato mediocre con la moglie ambiziosa, la dolce Nathalie con l'infantile marito Alain e Roxanne, alla disperata ricerca di un padre per i suoi figli.
Tutti i temi più scottanti della vita di coppia quali l'incomunicabilità, l'inadeguatezza e l'insoddisfazione per una condizione mai sufficientemente importante, vengono affrontati ma con una vena ironica al limite del demenziale.
I personaggi sono così sopra le righe da essere caricaturali ma non così comici da risultare divertenti. Le gag scontate, la recitazione ostentata e le conclusioni tanto forzate da non invogliare la visione del secondo tempo di un film che avrebbe avuto i presupposti per decollare ma che si sgonfia già dopo il primo quarto d'ora.
Le sequenze troppo lunghe, i ralenty abusati, i primi piani iterati; il film non è insostenibile ma semplicemente inutile.

giovedì 20 dicembre 2012

Una famiglia perfetta

Una famiglia perfetta
di Paolo Genovese
Italia 2012

Interno giorno.
Uno ad uno entrano in scena i componenti di una famiglia italiana, impegnati nei preparativi della vigilia di Natale. Casa da rivista e modi garbati. Poi arriva Leone e d'un tratto qualcosa s'inceppa.
Inizia così il film di Paolo Genovese, da qualcuno definito una commedia all'italien per indicare quel tipo di commedie un pò più sofisticate di quelle italiane che strizzano l'occhio ai modi sagaci del miglior Ozòne.
Le prove d'attore di nomi del calibro di Castellitto, Giallini e anche perchè no, Gerini, sono supportate da un'ottima sceneggiatura che se dapprima punta tutto sulla commedia, tiene in caldo un colpo di scena dietro l'altro, condito da cambi di direzione e nuovi elementi che porteranno solo nell'ultima scena al totale chiarimento del senso del film.
Molto divertente.
E' la commedia degli equivoci a partire dal fatto che la "famiglia perfetta" innanzitutto non è una famiglia ma solo una compagnia teatrale scritturata da Leone per oscuri motivi. Niente volgarità ma un sottile gioco delle parti che impegna gli interpreti fotogramma per fotogramma chiedendo a turno, ad ognuno di loro, di diventare protagonista. E lo fanno talmente bene che ci si riesce ad appassionare alle singole vite un pò come accadeva nei film di Monicelli; casale in Umbria o in Toscana cosa cambia? Le vicende s'intrecciano e si dipanano come colori su di una tavolozza per dare un affresco spumeggiante e realistico, seppur nella finzione della finzione. Un meta-film centrato sul teatro, ma l'unica vera rappresentazione è quella della vita e, se la commedia rimane il tema di fondo, a tratti spuntano note drammatiche con piccole incursioni nella vita dei personaggi che vogliono essere una riflessione su quella di ognuno di noi.
Un pò ruffiano forse? Forse sì, ma la storia è rappresentata in maniera così divertente ed interpretata così bene che si può concedere qualche scivolone nello sdolcinato senza però risultare mai squilibrato.
Carino, finalmente un film che, pur uscendo sotto le feste di Natale, non ci fa rimpiangere di esser rimasti a casa davanti alle luci dell'albero.

La sequenza sulle regole della tombola è imperdibile.

martedì 4 dicembre 2012

L'aria salata

di Alessandro Angelini
Italia 2006

Fabio assistente carcerario riconosce in un nuovo detenuto il padre che ha abbandonato lui e la sua famiglia molti anni prima.
Inizia una guerra al massacro fra i due che li porterà ad una resa dei conti e ad un'epilogo inatteso.

Un film particolare che affronta più temi in uno; il dramma dei carcerati, il rapporto genitori-figli, le famiglie sbagliate, l'emarginazione... sotto tanti punti di vista.
Troppa carne al fuoco forse.
I premi vinti (David di Donatello, Roma Film Fest e Flaiano Film Festival) preludono ad un coinvolgimento emotivo che manca. Il film è troppo convulso, a tratti noioso, seppure bravi gli interpreti. Non c'è claustrofobia, non c'è pianto, non c'è sufficiente disperazione per convincere a fondo della realisticità dei fatti.
... che a volte sanno essere molto più drammatici della finzione.
Il film passa e va, lasciando un senso d'artificiosa confezione che non accosta mai veramente al dramma dei personaggi.
I confronti verbali come pietre scagliate rimangono sospesi a mezz'aria; nulla colpisce davvero come i pugni allo stomaco che dovrebbe dare.
C'è un senso di rimpianto, alla fine della proiezione per una pellicola che avrebbe potuto fare molto ed invece resta tiepida. La ripetitività delle scene porta ad una disaffezione e conseguente afflosciamento nel finale; un vero peccato per un film che parte con la giusta tensione.
Buona l'interpretazione nervosa di Giorgio Pasotti che piace molto, ma il suo spazio evapora come una corsa troppo rapida.

sabato 24 novembre 2012

In the mood for love

In the mood for love
di Won Kar Wai

Interessante l’uso della colonna sonora.
Un ritmo lento e ipnotico, ma al tempo stesso convulso, al punto da coinvolgere lo spettatore nello stato d’animo dei protagonisti. Un tango di poche note che s’inseguono ripetutamente senza raccontare mai nulla di nuovo ma sussurrando una melodia malinconica.
Una canzone che parla di nostalgia di tempi passati e rimpianto per occasioni perdute.
Le note sembrano dipingere, su una tela immaginaria, i passi timorosi degli amanti, nella direzione del loro destino, e poi subito ritrarsi, per indietreggiare e non lasciare spazio ai sentimenti.

Difficile parlare di amanti.
Non una scena documenta esplicitamente incontri amorosi, né baci appassionati, ma l’emozione che traspare dall’incontro dei loro sguardi, è così forte da non lasciare nulla all’immaginazione.
C’è paura nei loro gesti; entrambi soffrono per non aver mai realmente conosciuto l’amore, e il fatto di incontrarsi all’improvviso, e scoprirsi così incredibilmente simili e fragili, li fa sentire nudi l’uno di fronte all’altra.
…E così oscillano, come le note della canzone, senza mai incontrarsi realmente.
La paura d’amare è più forte di quella di vivere per sempre senza amore, e così, mentre le loro vite si allontanano, si guardano pensando a quelle parole mai dette.

Una storia struggente, che rende impotenti davanti alla rinuncia all’amore.
Ancora più terribile la speranza che accompagna lo spettatore fino all’epilogo:”Quissas, quissas, quissas”.

I tubini di Maggie Cheung diventano icona cinematografica accarezzati dallo sguardo di Tony Leung.

giovedì 22 novembre 2012

Dolls

Dolls
Di Takeshi Kitano
Japan 2002-113’
 
Sawako tenta il suicidio. Matsumoto ne fa la sua unica ragione di vita.
Hiro si vota alla Yakuza. Quando tornerà sui suoi passi, sarà troppo tardi.
Haruna è una pop star. Nukui ha occhi solo per lei.
Tre storie che si sfiorano appena, unite da un filo rosso.
Persone come marionette, pupazzi, senza vita, svuotati d’amore.
Un amore inseguito, e cercato, in un vagolare per il mondo, con passi  ora lenti, ora affrettati, quasi sconnessi, su una strada che cambia, si snoda e passa attraverso i mille colori della vita, del tempo, sotto un cielo velato dalle fronde di alberi da fiaba.
Metaforica chiusura ad un lieto fine. Amore e morte, strettamente avvinti, nel colore simbolo che domina scenografie e costumi.
Kitano riprende tutti i suoi temi cari, e li amalgama in un’opera d’arte per palati fini.
I suoi personaggi tra Kabuki e Nò, centellinano le parole, ma ogni frase è una regola, che riecheggia nel silenzio di foglie cadute e neve calpestata.
Vite fatte di scelte forti, necessarie per sentir fluire la vita dentro, anche quando viene lavata via, come sangue dalla strada.
Tutto a testimoniare un pessimismo di fondo, sulla caducità della vita.
Il montaggio, suggerisce dejavù  che conducono per mano lo spettatore in un gorgo di sentimenti sempre più profondi, fino a lasciarlo, sui titoli di coda, con la spossatezza di chi è stato attraversato da una forza superiore.
Impossibile aggiungere altre parole per un film la quale magnificenza visiva è solo un pallido preambolo ad una sconvolgente profondità espressiva.

martedì 20 novembre 2012

E' stato il figlio

E' stato il figlio
di
Daniele Ciprì
Italia 2012
colore - 90
Ricorderò questo film come l'unico che mi ha lasciata a singhiozzare anche una volta accese le luci della sala.


"E' stato il figlio" è un film violentissimo non tanto nei contenuti nient'affatto originali, ma nella messa in scena e nella sceneggiatura, costruite sapientemente per non lasciar intenderne la conclusione, pur mantenendo avvinto lo spettatore sin dai primi fotogrammi. La prima scena lascia il dubbio che il film sia realmente iniziato ma, magicamente, come la narrazione di un nonno ad un nipote, la storia avvolge e trascina indietro nel tempo a seguire le vicende di una famiglia nella Palermo degli anni settanta.
Il resto va da sè, ma i personaggi, come in un affresco dei Malavoglia, sono incisi nella memoria con le loro barbe lunghe, i capelli scarmigliati, gli abiti sporchi.
Il cast noto di caratteristi è capeggiato da un Toni Servillo irriconoscibile, stravolto nei tratti e nelle movenze ma così vero e convincente che cattura ed ipnotizza dalla prima inquadratura. Ora sornione, ora ridicolo, a tratti violento, la sua maschera patetica è una sintesi perfetta dell'italiano meno abbiente con il suo bagaglio di miserie e delusioni.
Il ruolo di Nonna Rosa è affidato ad Aurora Quattrocchi che costantemente sullo sfondo per tutto il film, esplode nell'ultima scena chiave, in una progressione violentissima che la trasforma in un'erinni diabolica, per poi tornare remissiva e taciturna. Domina il primo piano lunghissimo, inchiodando la platea con questa personificazione della mafia che parla per sua bocca e che schiaccia la volontà di tutti gli astanti senza possibilità di replica.

I toni comici s'insinuano nella trama tragica attraverso mille piccole sfumature pronte ad esser lavate via dall'epilogo aberrante. Il coro, nei panni di uno spettatore in abito scuro, sottolinea i punti salienti.
Sopra tutti i personaggi, incombe il senso di tragicità come in un teatro di pupi che abitano nelle mura di un castello, inespugnabile come il caseggiato dei protagonisti. Ed ancor più incombente è il senso di devastazione e di assoggettamento all'idea di mafia per cui tutto ciò che avviene viene reso e fatto in famiglia. Tutto ciò che accade ha senso solo se riconducibile ai soldi. Anche gli affetti sono un mezzo per sbarcare il lunario e dalla disperazione più cupa può nascere la speranza di una vita migliore, anche se solo agli occhi di chi guarda.
Il sentimento di perdita, di abbandono, di solitudine di desolazione permeano la scrittura al punto da risvegliare nello spettatore le paure più recondite e fargli sposare completamente le emozioni dei protagonisti ma non tanto da un punto di vista sentimentale, bensì da quello concreto di chi non ha alternative di come affrontare il mondo.
La fotografia di Ciprì è una tavolozza dalla quale attingere tutti i colori per descrivere gli stati d'animo che si susseguono sullo schermo e che impreziosisce ogni sequenza al punto da consegnare questa piccola gemma nell'empireo dei film politicamente scorretti e stilisticamente ricchi così diffusi in Italia, così poco capiti all'estero.
Questo sì che è cinema.

lunedì 19 novembre 2012

Diaz

Diaz
di Daniele Vicari

I fatti del G8 raccontati a partire dalla morte di Carlo Giuliani, pone Vicari al di sopra delle parti, riguardo alle considerazioni del caso. Non si schiera, non accusa, non discolpa ma inizia da lì la sua narrazione, a partire da un clima claustrofobico e compromesso al punto da opprimere chi al G8 è rimasto, nonostante ormai, la guerriglia fosse dilagante.
Descrive i buoni e i cattivi, ce li mostra, li presenta e li segue nelle loro azioni, costringendoci a guardare ciò che fu commesso.
Il senso d'impotenza di fronte a quanto non appartiene ad un passato remoto ma alla storia di tutti noi (chi non ricorda cosa faceva durante quella settimana? Chi non lesse le cronache in tempo reale? Chi non si è schierato per una o l'altra parte?) rimane, pesante, al termine della proiezione. L'orrore per quei manganelli in faccia a ragazzi arresi, a mani in alto, le urla di chi, inseguito, ha cercato scampo, i denti persi, le chiazze di sangue che si allargano sotto i corpi inermi; tutto questo non può essere dimenticato e se vuole puntare il dito contro i potenti, di sicuro, il film lo fa anche salvandone le falangi armate.
La voglia di gridare "basta" nasce da dentro e diventa quasi un grido fisico; difficile la visione che disturba al punto da essere a tratti insostenibile.
La guerra, anche quando è sotto casa, è orribile per il contributo di sangue che chiede, lucidamente, facendo un bilancio costi/benefici e triturando tutto quanto si trova sul suo cammino.
Non ci sono guardie, nè ladri, ma solo uomini travolti da un evento rivelatosi più grande di loro, compreso chi, ha creduto di poterne dominare le conseguenze.
L'inquadratura dei caschi blu che irrompono nella scuola, attraverso il portoncino principale, sbattendo e spingendosi, accompagnato dalle urla, dal rumore plastico degli scudi antisommossa e degli anfibi sul pavimento trasmette l'incapacità di arginare un dramma annunciato e l'inerzia col quale fu respinto, come mille biglie in un flipper troppo vecchio.
Lo sdegno, segue lo spettatore fuori dalla sala per quel senso d'impotenza nel non aver fatto nulla allora dimenticando troppo in fretta.
Un ottimo Vicari che, dai tempi di "Velocità massima" ha fatto un considerevole salto di qualità.

La classe operaia va in paradiso

La classe operaia va in paradiso
Di Elio Petri
Italia 1971
Colore 125
Lulu’ Massa, 31 anni, è un operaio della BAN.
Pluripremiato emblema di produttività è l’uomo simbolo della politica della produzione a cottimo. Odiato dai compagni ed encomiato dal padrone, vede la sua vita cambiare il giorno che resta vittima di un incidente sul lavoro. Sconvolto dalla mutilazione, inizia a cercare conferme fuori e dentro la fabbrica, arrivando a schierarsi con la protesta operaia, fino ad essere licenziato per motivi politici.
Senza lavoro né famiglia, sembra destinato ad una solitaria follia quando i sindacati riescono a farlo riassumere restituendogli la vita.

Film che ha disturbato la classe politica italiana in tempi di lotte operaie, “La classe operaia va in Paradiso” colpisce ancora oggi per la lucidità con la quale descrive l’alienazione del lavoro in fabbrica e le miserie umane che da esso derivano e lo abitano.
Petri, si scaglia ancora contro lo Stato, dopo la spallata di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, avvalendosi dell’opera di Gian Maria Volontè, suo attore simbolo che qui regala al cinema un personaggio da antologia.
Il suo Lulù è la classe operaia in una sola geniale sintesi.
In totale simbiosi con la macchina, tanto da dichiararsi ”una vite, un bullone, un pezzo di quella macchina che costruisco”, è totalmente asservito alla produttività, facendo della sua spersonalizzazione oggetto di vanto. E’ l’operaio perfetto, servo del padrone, rispettoso delle regole ed orgoglioso di dimostrare di riuscire a lavorare più veloce della macchina, a dispetto dell’umiliazione dei compagni. E’ concentrato, concentrato su quel pezzo che produce, ad occhi fissi e denti digrignati, in un costante grido di rabbia, convulso, fino allo scoccare dell’ottava ora di lavoro, quando torna a casa e si lascia cadere di fronte ad un televisore perennemente acceso a parlare di cose che non ascolta e non capisce, in una luce blu da sogno, senza guardare in faccia la sua donna, il suo bambino.
Lavora per combattere la noia delle otto ore, per mantenere le due famiglie che perde ogni giorno di più, mantenendo la fredda lucidità di chi si spinge a capire fin dove gli viene dato.
“Tutto va bene fin quando fai quello che dice il padrone, ma quando apri gli occhi, non si può più tornare indietro”. E li apre gli occhi Lulù; li apre quando la macchina gli mozza un dito, quando si abbandona alla rabbia per l’odio dei compagni e alle carezze alla giovane operaia.
Apre gli occhi quando cede il passo alla sua umanità, così repressa da riuscire a godere solo di fronte alla macchina e non più fra le braccia di una donna.
E quando apre gli occhi è solo un simbolo; fomenta la lotta travolto dall’osannare dei protestanti, si batte, si schiera, arringa e viene cacciato, lui solo perché l’unico ad aver alzato realmente la testa. Il migliore operaio che si sgancia dalla catena di montaggio e si rivolta contro il padrone. Lui deve essere schiacciato, annullato, ridotto come il Militina, vecchio pazzo che cerca ancora di abbattere il suo muro, fra le pareti fredde di un manicomio, ma che a sprazzi di lucidità lo guida alla consapevolezza.
Non è l’intelligenza ma l’istinto a guidare Lulù alla lotta e, quando viene allontanato, quando non è più preda del bagno di folla che lo espone ogni mattina come vessillo della lotta, si ritira nel suo guscio scomparendo alla vista. Emblematica la scena, in cui accatasta su un tavolo oggetti inutili che descrive e stima in prezzo di ore lavoro; premi ridicoli per una vita buttata nel caos della fabbrica, a farsi sputare in faccia schiuma da un tubo bollente; quattro sveglie, tutte pronte a ticchettare per buttarlo giù dal letto e incanalarlo in quel fiume di “anime prave” che varca ogni mattina i cancelli della fabbrica. Gente senza un’alternativa che lotta per evadere dalla catena di montaggio ma che non può fare a meno di tornarvi, come un cane alla catena.
Quando la lotta sindacale riesce a riportarlo al suo lavoro, Lulù non gioisce; inebetito non fa altro che riprendere posto alla sua macchina che gli rende nuovo vigore e lo restituisce leader di un gruppo di pecore convinte di aver lottato senza aver capito per cosa.
Bellissima l’ultima scena di operai al lavoro, che parlano fra rumori assordanti, travisando ogni parola, traendo conclusioni inverosimili e rallegrandosi chissà per cosa mentre partecipano al sogno di Lulù che conquista il Paradiso nella nebbia, in un’allegorica liberazione dalla consapevolezza ed un ritorno al conforto della catena di montaggio che è l’unico posto in cui riesce ad essere veramente libero.

Tutti presenti gli elementi della contestazione, dai sindacati agli studenti per un film uscito in contemporanea ai fatti e che dipinge con greve pessimismo il destino degli uomini che già dalla scuola “sembrano piccoli operai”.
Pesante l’ambientazione, in un inverno gelido di un sobborgo dell’industria milanese, freddo fuori e dentro gli animi tra architetture funzionaliste e cappotti militari con colbacchi pseudo sovietici.
Nessuna speranza per la gente della fabbrica presa nell’ingranaggio che la stritola senza riuscire a venirne fuori.
Facile il richiamo ai “Tempi moderni” di Chaplin che già nel ’36 ne anticipava i temi; più insolito pensare al “Fantozzi” di Paolo Villaggio che pochi anni più tardi associa tutti i canoni della classe operaia all’emergente classe impiegatizia.

Splendida la colonna sonora di Morricone, premiata al festival di Cannes in binomio con quella per “Il caso Mattei”.

L'uccello dalle piume di cristallo

L’uccello dalle piume di cristallo
Di Dario Argento
Ialia/Rft, 1970
Colore, ‘96

“E’ la malinconia, il cuore che gronda di emozioni e tutta la scena che gronda di musica”
“La casa dove si svolge la storia non è altro che un organismo vivente”
(Dario Argento)

Sam Dalmas, scrittore americano, assiste ad un tentativo di omicidio in una galleria d’arte; riesce a salvare la vittima ma l’assassino inizia a dargli la caccia. Intraprende un’indagine personale, certo di essere a conoscenza di un dettaglio che lo aiuterà a risolvere il giallo. Tra delitti e colpi di scena, giungerà ad un’inquietante conclusione.
Primo della trilogia sugli animali insieme a “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”, “L’uccello dalle piume di cristallo” è anche il capostipite della produzione di Dario Argento, padre del moderno horror all’italiana.
Tenuto a battesimo da padrini d’eccezione quali Vittorio Storaro per la fotografia ed Ennio Morricone per le musiche, l’allora poco più che ventenne Dario, scrive, gira e produce un giallo intelligente e denso di suspense che già prelude alla delirante esplosione di tensione e sangue, dei film futuri.
Figlio del suo tempo, con un’anima rock, dimostra di aver ben appreso le lezioni di maestri come Mario Bava che in questo film, ritorna in piccole citazioni tratte dal suo “6 donne per l’assassino”, in particolare. Il clichè dell’assassino in impermeabile, guanti e maschera, i delitti efferati e fantasiosi, le vittime fotografate come manichini e non donne in carne ed ossa, sono un continuo richiamo alla scuola di Bava che qui si arricchisce di una veste più concreta e meno manierista, tale da conferire maggior realismo ai fatti e per questo, maggiore spavento nello spettatore.
La paura, per Dario Argento, nasce dall’essere comune; l’assassino come una persona qualsiasi, anche noi stessi. Ecco la chiave del terrore che qui si presenta in tutta la sua essenzialità, sfrondata dall’apparato gore dei successivi anni ‘70.
L’assassino è guidato dal germe della follia che esplode ad un banale innesco e che pertanto resta imprevedibile quanto indomabile. Esseri umani come mine vaganti, pronti a deflagrare in tutto il loro orrore, trascinando con sé vittime innocenti quanto casuali. L’imprevedibilità dell’omicida è il segreto dell’angoscia che trasuda in tutta la sua opera, determinando una totale identificazione dello spettatore non tanto con la vittima, quanto coi protagonisti, sapientemente tracciati come “eroi per caso” coinvolti loro malgrado, incapaci di sottrarsi agli eventi.
Paladini in jeans e mocassini; gente disarmata e spaventata che incarna tutta l’umana pavidità di fronte alla morte, ma che procede incrollabile alla ricerca della verità, ipnotizzata da affascinanti sirene dal tetro richiamo.

“L’uccello dalle piume di cristallo” è un’opera prima significativa, in cui già coesistono tutti gli elementi che verranno sviluppati in futuro, in un crescendo di efferatezza e delirio che raggiungeranno il culmine di perfezione in “Suspiria”.

Il perfetto equilibrio tra effetti visivi e sonori fa scuola per le generazioni future.
Tanto la musica quanto la sua assenza, sono utilizzate per sottolineare dei momenti cruciali; il silenzio come musica emotiva e non uditiva, scatenata dalla tensione delle immagini e da quella accumulata nelle sequenza precedenti. Le voci, quasi in presa diretta, sono suoni duri che colpiscono con precisione lo spettatore, concentrando la sua attenzione sul dettaglio narrato, avvincendolo in una morsa d’angoscia che sale fino ad un momento di tale insostenibilità in cui la musica irrompe violenta e stridula, in una concezione quasi rumorista. Non già melodia, ma suoni di corde pizzicate, stridenti e stonate, alternate a canti di donne e sonorità meccaniche. Suoni protagonisti della vicenda, come il canto di un uccello o una folle risata scellerata.
Musiche come traccia ispiratrice per una vera scuola dark sintetizzata dai Goblin nei film successivi.
Il cinema di Dario Argento è musica per le orecchie e droga per gli occhi.
La raffinatezza delle immagini non cede mai completamente il passo alla violenza.
Le scelte scenografiche coadiuvano gli attori nella costruzione dei personaggi fino a rubar loro la scena con dettagli architettonici come scale a tromba triangolare, facciate di palazzi neoclassici, porte a vetri ad intercapedine.
Un’esplosione di luce, un bianco accecante, nella scena principale del film per descrivere la galleria d‘arte; il protagonista, come lo spettatore, sono messi in grado di carpire da subito la soluzione del giallo. Tutti gli elementi essenziali sono davanti ai loro occhi, come su di un palcoscenico. L’unica scena realmente illuminata è tale da insinuare il dubbio di aver visto il dettaglio chiave; è un gioco da illusionisti. Mostrare per meglio nascondere ed anche i successivi flash back in fermo immagine, serviranno ad alimentare la morbosa scoperta del particolare.
Le sculture fantasy presenziano la scena del tentato omicidio senza far ombra agli attori bensì conferendo una tetra alea di morte, semmai ce ne fosse stato bisogno, con la loro immota presenza gotica. Le sagome plumbee che si stagliano nel bianco rigore della scena fanno da cornice alla macchia rossa di una lei ferita a morte, che ha lo stesso rosso nei capelli e in quella supplice mano che implora aiuto. Una mano che ritorna, come immagine di disperazione in questo cinema dell’orrore, molto più carica e spaventosa, nella scena del delitto della medium in “Profondo rosso”.
Se gli interni celano misteri, cadaveri e assassini, illuminati da lame di luce e porte sul buio, gli esterni non sono da meno, che si tratti di un cascinale abbandonato nella nebbia o di un vicolo buio.
L’ambientazione romana con le sue strade d’acciottolato e i suoi palazzi antichi, trasuda un senso di desolazione. La fotografia ad ombre lunghe, contribuisce a dipingere una città senza scampo, cupa e desolata, disseminata di lamiere e palazzi fatiscenti, in totale sintonia con lo stato d’animo dello spettatore che vive l’angoscia di una città decadente che nasconde l’assassino e minaccia le vittime.
La scelta della costante penombra negli interni, anche in pieno giorno, obbliga l’occhio a strizzarsi alla ricerca di un dettaglio, innescando una concentrazione da scioccare con repentini flash in cui le lame affondano e il sangue sgorga sullo schermo o stenta a farlo, ma costringendo comunque lo spettatore a continuare a guardare.
E’ lo sguardo il vero principe dell’inquadratura; che sia un primo piano di occhi spaventati o la soggettiva dell’assassino, è comunque impossibile distoglierlo da ciò che accade, per un effetto di fascinazione che cresce durante il film e culmina solo svelando la verità, in un’avvincente tortura di movimenti di camera.

Profumo. Storia di un assassino

Profumo. Storia di un assassino
 di Tom Tykwer
Germania/Francia/Spagna, 2006
Colore, 147’
 
Francia, XVIII secolo.
Jean-Baptiste Grenouille nasce nel mercato del pesce di Parigi.
La madre, credendolo morto, lo abbandona ma, scoperta, verrà impiccata per infanticidio.
Inizia l'epopea del ragazzo che, uscito dall'orfanotrofio, viene venduto prima ad un conciatore di pelli eppoi ad un profumiere. E' da quest'ultimo che apprende i segreti dell'arte del profumo che gli consentono di perfezionare il suo eccezionale talento: conosce e riconosce ogni profumo ed il suo olfatto eccezionale lo pone uno scalino sopra la razza umana.
Poco meno che adolescente, s'imbatte in una fanciulla, la cui morte accidentale lo spingerà verso la ricerca ossessiva della conservazione dell'odore umano.
Trasferitosi nella provenzale Grasse, città dei profumi, affinerà le sue tecniche fino a trasformarle in   esperimenti mortali.
Ispirandosi alla leggenda del faraone egizio, per la quale il profumo perfetto è composto da dodici essenze più una tredicesima, la più potente che lo trasformerà in un'invincibile filtro d'amore, Grenouille commetterà altrettanti omicidi di giovani donne, ognuna dotata di una bellezza particolare. Solo così potrà compiere la sua opera e creare la pozione perfetta.

Tratto dal romanzo “Il profumo” di Patrick Suskin, quindici milioni di copie vendute e tradotto in quarantacinque lingue, compreso il latino, “Profumo. Storia di un assassino”è stato premiato con lo European Film Awards nel 2007 come miglior fotografia ad opera di Frank Griebe.
Non troppo osannato dalla critica perché considerato inferiore al testo originale nella trasposizione delle sensazioni olfattive e nella descrizione della personalità di Grenouille, è da rivalutare, poiché si tratta della sottile descrizione di una psicologia unica, al limite dell'onirico, che dall'oggettiva narrazione dei fatti si sposta, gradualmente con l'evolversi della vicenda, su un piano trascendentale fino a confondere la realtà con il sogno.
La cruda veridicità delle prime sequenze, a partire dalla cornice maleodorante del mercato del pesce di Parigi, fino ad arrivare alla realistica sequenza del parto sotto il bancone della pescheria, schiaffeggiano lo spettatore e lo costringono a sgranare gli occhi su una storia che si sposterà presto dal piano narrativo a quello olfattivo. E' proprio la forte miscela di odori che richiama in vita il neonato il quale primo vagito coinciderà con un drammatico j'acquse nei confronti della madre.
Jean-Baptiste esiste per via del suo olfatto; è il suo potere eccezionale che, prima ancora di aprire gli occhi, gli consente di difendersi dal mondo esterno. Quello stesso potere che lo separa e lo distingue dal resto della razza umana, rendendolo una specie di animale, capace di identificare qualunque odore, anche quello di una rana sott'acqua. Ciò che sente non viene descritto, ma filmato, con una traduzione simultanea dall'odorato alla vista, consentendo allo spettatore di percepire rapidamente quanto lui, l'universo di odori e profumi che lo circonda. Ogni percezione olfattiva scatena in lui un'emozione che custodisce fino al giorno in cui imparerà ad usare il suo talento.
Assuefatto alla conoscenza attraverso le narici e non il tatto o la parola, il giovane attraversa come un alieno il mondo circostante, in apparente ipnosi, fin quando non verrà sconvolto dall'odore di una fanciulla. Una bellissima fanciulla della quale s'innamora istantaneamente; il suo è profumo di beltà, giovinezza, candore, speranza, vita. Sembra non vederla neanche, ma solo tentare di nutrirsi di ogni più piccola sfumatura della sensazione che emana. Rapito fatalmente dalla sua presenza, incapace di comportarsi diversamente che con l'istinto animale che le sue percezioni olfattive lo spingono ad usare, tenta di impadronirsi della sua magia, annusandola con estatica devozione. Sconvolta da un simile comportamento e spaventata a morte, la ragazza tenterà di sfuggirgli, finendo accidentalmente uccisa. La sua morte non sembra colpire Grenouille, compreso nel tentativo di memorizzarne ogni singola percezione olfattiva che sparisce però rapidamente, con lo svanire della vita. E' a questo punto che sembra ridestarsi dal suo trance cercando un modo per ricostruire quell'alchimia.
In questo preciso momento, nasce il mostro; la sua ricerca lo spingerà ad infrangere qualunque tabù di moralità nel perseguimento del suo obbiettivo.
Jean-Baptiste è amorale; non sa di appartenere alla razza umana e questo fa di lui un personaggio che affascina il pubblico che cercherà di capirne i motivi senza nutrirne alcun desiderio d'identificazione.
Il suo essere diverso viene definitivamente dichiarato dal momento in cui scopre di non avere odore; per uno scherzo del destino lui, in grado di riconoscere qualunque sensazione olfattiva, non è in grado di suscitarne alcuna. Non avere odore significa anche non lasciare traccia, non essere visibile, identificato, riconosciuto. Questa mancanza fa di lui un'ombra. La sua frustrazione cresce al punto da votare la sua vita alla ricerca di identificazione per il tramite della pozione che cercherà di realizzare; un potente filtro capace di donare amore e adulazione a chi lo possiederà e altrettanto amore, di rimando a chi rientrerà nella sua scia. La collezione di delitti che si lascerà alle spalle, non avrà nulla di passionale. I cadaveri delle donne vengono ritrovati integri, bellissimi come in vita, apparentemente dormienti. Il suo rispetto per il corpo umano, in quanto detentore di preziose essenze trascende quello per la vita. Non c'è odio, né accanimento, né tanto meno morbosità nel contatto con le vittime. Grenouille agisce come un chirurgo, con la freddezza di chi persegue un importante obbiettivo scientifico. E' completamente astratto dalla realtà, pur vivendovi immerso; ciò che fa è un esperimento, il fatto che comporti dei sacrifici umani non è contemplato.
Sembra agire in preda a forze soprannaturali e, a metà racconto, la narrazione inizia a trascendere la realtà. I gesti concreti suscitano reazioni impreviste e il forte coinvolgimento sensoriale sembra spostare la vicenda su un piano metafisico.
La scena dell'esecuzione vira rapidamente dal dramma alla sorpresa, all'estasi. La folla inferocita, accorsa per assistere allo scempio delle sue membra, appena annusata l'essenza miracolosa, cambia completamente atteggiamento nei suoi confronti; prima prova simpatia, poi lo vuole libero, poi lo ama, poi, tanto amore nell'aria, diventa una droga collettiva che spinge ad un'orgia di sensi e di corpi dalla quale si risveglierà come da un sogno.
Tanta potenza appaga Jean-Baptiste che, anziché servirsi della pozione per mettere il mondo ai suoi piedi, la esaurisce in un estremo atto di amore, tornando in utero, in quel mercato del pesce nel quale è venuto al mondo, ucciso da una folla di sbandati, incapaci di tradurre l'amore profondo in qualcosa di differente dalla cannibalizzazione. Potenza del filtro o legge del contrappasso non sarà dato scoprirlo.
L'assassino assassinato, muore senza lasciare traccia di sé così com'è vissuto, insinuando il dubbio che sia davvero mai esistito questo essere soprannaturale e che la sua vicenda si sia concretamente consumata. Con lui scompare il filtro e la sua esistenza lascia solo una scia di morte dalla mano ignota. Giovani donne uccise per mano di un solo assassino, con un movente o pura follia? Persone che in qualche modo lo hanno posseduto, dalla madre alla direttrice dell'orfanotrofio, fino a tutti i datori di lavoro, tragicamente morti dopo essersi separati da lui.
La sua vita come il passaggio di un “angelo della morte” capace di seminare distruzione e amore,  incapace di donarne o provarne a sua volta.
Perfetto nel ruolo Ben Whishaw, attore di teatro semisconosciuto al cinema, con un volto impenetrabile e distante, ma capace d'incarnare la maschera del mostro patetico. Ingiustamente considerato inespressivo è stato invece capace di rendere l'invisibilità di Grenouille una distintiva determinante caratteristica.
Emblematica la prima inquadratura di Jean-Baptiste che ci viene presentato con la sola inquadratura del suo naso che emerge dal buio, elemento determinante che buca lo schermo e intorno al quale ruota tutta la vicenda. Non c'è bisogno di mostrarne il volto; lui, fantasma di carne ed ossa esiste per merito del suo talento senza il quale sarebbe totalmente invisibile.
Qualche piccolo anacronismo nella ricostruzione storica ma un buon ritmo per Tom Tykwer, già regista del successo “Lola corre” che riesce a tratteggiare realistici acquerelli di una Parigi decadente e al tempo stesso sfavillante, passando dal sobborgo maleodorante al giardino più profumato. I suoi personaggi sporchi e logori si mescolano ad altri in parrucche incipriate e crinoline, in una danza di odori visivi che esplode sullo schermo al ritmo intermittente di un minuetto e di un video clip.
La coreografia della rappresentazione orgiastica è stata affidata a La Fura Dels Baus.