“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

venerdì 7 novembre 2014

Nosferatu il Principe della Notte

di Werner Herzog
Germania, '79

Olanda, metà ottocento. L’agente immobiliare Johnatan Harker viene inviato in Transilvania per chiudere un contratto d’acquisto con il Conte Dracula, determinato a trasferirsi nei Paesi Bassi. Durante il viaggio Johnatan si cala in un’atmosfera paurosa dettata dal mistero che aleggia intorno alla presenza del nobiluomo. Determinato a concludere l’affare approderà al castello ma dovrà constatare suo malgrado che le leggende intorno al conte sono vere: il conte è un vampiro di antica stirpe che non esiterà a farne sua vittima prima di solcare il mare per raggiungere l’Olanda e l’amata Lucy, devota moglie di Harker con la quale si è instaurato un singolare legame telepatico. Una volta arrivato, il conte dilagherà per le vie della città come un morbo mefitico e travolgerà con sé giusti e malvagi.
Traendo libera ispirazione dal romanzo “Dracula” di Bram Stoker ed omaggiando il “Nosferatu” di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922 Werner Herzog si impegna in un remake che rimane nella storia del cinema. “Nosferatu il principe della notte” è un film asciutto, tetro, con qualche trovata tecnica che oggi fa sorridere come il montaggio del volo del pipistrello ma che mantiene attualissimo il suo messaggio di rottura coi tempi. Herzog vuole realizzare un grande film e ci riesce; nessuno meglio di lui sa trasporre la figura macabra del vampiro in un’ottica tanto umana. Nosferatu risveglia le paure ataviche e lo fa con un’eco dolente di giorni perduti. La sua moderna chiave di lettura apre le porte della paura attraverso le vesti spoglie di un antieroe che atterrisce ma al tempo stesso attrae. Pur mostruoso è romanticamente vulnerabile, tanto da suscitare pietà nello spettatore che ne rimane suo malgrado affascinato, vittima consenziente delle sequenze più violente. Ma la violenza è solo suggerita in un gioco di non visto che lascia tanto spazio all’immaginazione da non avere limiti. Il pubblico come Johnatan Harker viene stregato senza opporsi, prosciugato di ogni volontà, prostrato di fronte alla potenza del “principe della notte”. Mito o leggenda c’è bisogno di credere in qualcosa di spaventoso ma al tempo stesso così umano da permettere una totale identificazione nel pubblico; Herzog dirige un magistrale Klaus Kinski che attinge a tutte le sue doti più introspettive per portare in scena un mito. Se è vero che “non c’è piacere uguale alla paura” [cfr. Clive Barker] è altresì vero che questo vampiro entra sotto pelle come un cancro maligno impossibile da estirpare. Il suo viso tagliato con le luci, emerge dal buio, nelle scene salienti, di lunghi primi piani interamente omaggianti l’estro di Kinski e al mito di Murnau. Klaus accetta la metamorfosi e ci regala il più bel “non morto” della storia del cinema, grazie a un po’ di cerone e pochi artifici. Il suo viso irrompe prepotente sullo schermo come una maschera perfetta che incarna il dolore del mondo: rughe e pieghe autentiche intorno ad enormi occhi espressivi che riescono a guizzare da una lacrima di malinconia a bagliori di lucida ferocia. Non c’è recitazione ma solo immedesimazione per una prova d’attore magistrale per la quale impegna tutta la sua follia nell’interpretare l’essenza dell’angoscia per una vita eterna. I monologhi esplicativi dalla solitudine cosmica all’amore eterno esplodono il concetto di inutilità dell’esistenza laddove vissuta nella ripetizione delle banalità quotidiane ma risultano a tratti ridondanti perché filtrati da un volto perfetto che già attraverso il suo sguardo ipnotico trasmette molto di più. Nosferatu è inquietante e disturba con la sua presenza netta e catartica; il suo incedere lento, le sue movenze eleganti che a tratti diventano animalesche laddove la sete di sangue viene innescata da un gesto anche banale, hanno la magia di una danza. Le mani che non gesticolano ma strisciano intorno agli oggetti, sinuose, con le unghie lunghe e viscide da rapace, sono pronte ad aprirsi in artigli mortali la quale violenza è solo profetizzata. La pellicola trasuda della presenza del vampiro sebbene compaia soprattutto nella prima metà del film, laddove viene creata attesa, angoscia e profetico smarrimento; poi brevi shot in mezzo ad altre sequenze, per ricordare che lui c’è. Nosferatu come presenza in uno specchio senza riflesso, in una stanza vuota, accanto a chi dorme sotto forma di vento leggero; la paura viene insegnata dal primo fotogramma per non lasciar più lo spettatore, per concludere con un finale senza speranza. L’arte del terrore senza mostrare va in aiuto della sceneggiatura che riesce a vivere di quel senso di presagio e di tormento cadenzati dalla colonna sonora cantilenante che ricorda un vento foriero di cattive notizie. La musica come un coro greco a sottolineare i momenti chiave, a cadenzare i battiti del cuore per spingerli sempre più in là catalizzando l’attenzione oltre la consapevole volontà. In questo clima lugubre Herzog inserisce delle figure allegoriche di singolare bellezza: il piccolo violinista testimone della prigionia di Harker e la peste dilagante. Entrambe figure teoriche e non personaggi reali, identificano la coscienza il primo e il male la seconda. La scena del banchetto durante la peste in cui la follia dilaga laddove tutto è ormai perduto, rappresenta la resa degli uomini alla lotta al male; un pasto fra prossimi fantasmi di fronte ad una Lucy che rimane solida nella sua fede e nella sua lotta. E’ lei l’ultimo baluardo ed è a lei che Herzog affida la magia della seconda parte. Stravolgendo i ruoli che Bram Stocker assegnò ai personaggi, il regista gira con camera a mano quasi tutte le scene d’azione per trasmettere un maggior realismo ed instillare la sensazione di preda nello spettatore. Sarà Lucy a guidare la lotta contro il vampiro, unica ad aver realizzato e capito il senso della tragedia che travolge la cittadina, armata solo del suo amore per il marito e della sua fede. Omnia vincit amor; Lucy contro la morte, la luce contro l’oscurità, l’amore puro contro il desiderio. Nella versione di Herzog è l’amore l’unica arma possibile spostando su un altro livello la lotta contro il male; ma poiché il film nasce dal dolore, se il male può soccombere di fronte all’amore è anche vero che l’amore può essere risucchiato da rinnovato male, in una lotta senza soluzione di continuità. L’unica vera forza del film è proprio questa, l’impossibilità di abbassare la guardia e potersi abbandonare ad un rassicurante lieto fine, la certezza che nessun gesto, anche il più estremo, possa essere sufficiente. Nella visione pessimistica del regista non c’è spazio per il romanticismo sebbene vettore delle vicende ed elegante scelta stilistica. Un film intelligente ed appassionato sull’esistenzialismo, unico nel suo genere così viscerale e coinvolgente come il suo protagonista. Nosferatu è la più bella dichiarazione d’amore che possa esistere e al tempo stesso una pesante richiesta d’aiuto da parte di chi non riesce più a vivere in un mondo fatto di “futili cose”. La condanna del mostro non è la solitudine ma la banalità e l’impossibilità di vivere un’esistenza più piena fermando il tempo. La denuncia di Herzog è attuale ancora oggi a trent’anni di distanza perché c’è immedesimazione tra il suo Conte ed ognuno di noi, oltre che sé stesso. Il connubio tra il regista e Kinski permette di mettere in scena la magia di una perfetta rappresentazione delle umane miserie come nella scena chiave del banchetto.  Prendendo in prestito le atmosfere dei pittori fiamminghi si ha una rappresentazione teatrale armoniosa e compenetrata dello spirito dell’epoca. Lo scenario naturale della cittadina tedesca di Delft rimanda ad un clima da operetta mentre l’incubo viene fatto serpeggiare libero come le centinaia di topi che ne invadono le strade. Per sua stessa ammissione, “Nosferatu il principe della notte”  è il primo film che “va oltre la sua persona” perché impone a Herzog delle regole necessarie per farne il remake perfetto dopo sessant’anni. Con esso viene stabilito un legame tra il Grande Cinema degli anni venti e l’espressionismo tedesco dei primi anni ottanta. Prelevando movenze dal cinema muto degli anni venti e surclassando il lungo elenco di pellicole dedicate all’elegante conte Dracula, infatti, Herzog compone a 35 anni un’opera unica per finezza stilistica e semplicità espressiva. Come il suo mostro va in scena senza troppi fronzoli, la sua regia è limpida ed alterna scene lugubri ad altre aperte e luminose, come estrema sintesi della vicenda d’amore e morte che narra.
Nonostante l’istrionica presenza di Klaus Kinski è doveroso ricordare gli altri protagonisti: una Isabelle Adjani di rara bellezza, luminosa, eterea, botticelliana ma anche cupa e determinata, moderna eroina pronta a tutto pur di sconfiggere il male e Bruno Ganz che riesce a rimanere tra le righe per tutto il film interpretando il ruolo del principe coraggioso, ma in grado di emergere improvvisamente in un geniale colpo di coda che raggela.

Commovente, profondo, potente, romantico: un capolavoro senza tempo.

martedì 24 giugno 2014

Maleficent

di Robert Stromberg
USA, 2014

La vera storia de “La bella addormentata nel bosco” vissuta dal punto di vista della strega Malefica. Una nuova prospettiva e soprattutto nuove conclusioni e retroscena. I buoni non sono poi così bravi e i cattivi, in fondo, hanno un cuore più tenero del previsto.
La Walt Disney mette a segno un nuovo record di incassi con questa favola epica densa di creature fatate, re potenti e principesse in pericolo. La brughiera misteriosa ospita la più potente delle fate, Malefica che delusa e tradita dall’amore si trasforma in una strega malvagia finchè…
Ancora una volta una riedizione in chiave moderna di un classico per le famiglie non tanto gotico ma abbastanza, da rivolgersi ad un target dai pre-adolescenti in poi. La computer grafica fa miracoli ancora una volta regalando una fotografia da vera favola e riuscendo a trascinare lo spettatore sulle ali della fantasia e non solo. La versione 3D promette brividi ma soprattutto vertigini. Le immagini botticelliane degli abitanti del bosco tripudiano nei controluce di Maleficent oltre le nuvole, ma la sincera verità è che il film brilla della stella di Angelina Jolie, bellissima e altera nonostante i tratti deformati. Il suo personaggio fiero ed elegante, giustifica la ferocia che la trasfigura poichè tradita nel sentimento più dolce e profondo. La sua vendetta che esplode nella scena del maleficio alla principessa, vale tutto il film per perfezione espressiva ed esattezza di tempi scenici; purtroppo dura troppo poco e il film si sbrodola in lungaggini ed immelensimento della stessa Malefica che diventa oltremodo buona. Troppo.
La dark side di ogni spettatore non è appagata da quest’inversione di tendenza e la delusione c’è; cosi come non convince Elle Fanning come Principessa Aurora, al limite dell’ebetismo. Ancora peggio gli altri interpreti dalle fatine troppo ridicole al principe Filippo che così imbranato non se lo ricordava nessuno.
Bella la figura del re Stefano, devastato dall’arrivismo e dall’ambizione.
I costumi in pelle di serpente, latex e quant’altro meritano una menzione, così come le favolose ali della strega che vivono di vita propria. Piccole chicche che ricordano però altre cattive doc quali Catwoman e gli X-Men, ad esempio. Le ispirazioni ad altri fantasy ci sono e molte: dalle citazioni di Fantasia ai Barbalberi del Signore degli Anelli, l’elenco è lungo.
Per quanto concerne il messaggio disincantato dove “non si vive più felici e contenti” con la famiglia e per il quale “l’amore vero non esiste”, potremmo sollevare qualche dubbio perché se è giusto non indorare la pillola alle generazioni future è anche giusto lasciargli almeno qualche speranza.
Maleficent è una rappresentazione teatrale con qualche ombra ed alcune luci fra le quali, la  più fulgida, lo sguardo perfido della sua protagonista.

Così-così. 

sabato 31 maggio 2014

Sacro GRA


Italia, 2013
Di Gianfranco Rosi

Sacro GRA è il primo documentario ad aver vinto il leone d’oro alla 70° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e il primo film italiano ad esser stato premiato dal 1998.
Girato da Gianfranco Rosi, salito alla ribalta nell'ultimo decennio, che ne firma anche la sceneggiatura, è la prima vera fotografia di quanto graviti intorno alla capitale d’Italia.
Si tratta di brevi shots montati in alternanza tra loro che ritraggono la storia di personaggi legati al Grande Raccordo Anulare: prostitute, sfollati, pescatori e studiosi, ognuno interpreta sé stesso in un’antologia di esperienze autentiche e senza filtri. La macchina da presa si sposta da una vita all'altra rimanendo ancorata al filo rosso dell’anello carrabile più grande d’Italia che spezza le storie col suo lento fluire, come un fiume continuo di automobili, luci, suoni. Nell'altalena di emozioni che coinvolge i protagonisti, la sola costante è la visione ipnotica del raccordo col suo potere catartico, una pausa nella vita, un’interminabile, costante movimento di massa. L’opera di Rosi affascina visivamente chi è estraneo ai fatti e rievoca ricordi familiari a chi lo conosce; da romano non si può che provare affezione verso la rappresentazione inedita e significativa di una realtà che ci rappresenta, indubbiamente meno romantica ma ugualmente imponente nella sua concretezza. Rosi ha il pregio di esser riuscito a tradurre in poesia un incubo quotidiano che appartiene a tutti gli abitanti di Roma; ci scorre nelle vene come sangue e come tale è necessario ed indissolubile. Il GRA taglia dentro e fuori vite ed emozioni, tracciando un confine violento tra la Roma d’amare e quella drammatica dei dimenticati. Non c’è nessuna Grande bellezza nel messaggio di questa pellicola che lascia un segno più eloquente di tante altre alchimie, raccontando la vita con una narrazione poco lineare, sì ma magnetica che merita sicuramente il premio.
Per gli abitanti di Osteria del Curato, sarà come sentirsi a casa seguire le storie di via Campo Farnia.

venerdì 23 maggio 2014

American hustle

USA 2013

Irving Rosenfeld, imbroglione di professione, è cooptato da un agente dell’FBI per collaborare ed aiutarlo a smascherare un giro di corruzione a sfondo mafioso. Sydney Prosser è la sua partner criminosa che  sconvolgerà gli equilibri.
La rievocazione seventies è perfetta e richiama atmosfere di nostalgica frenesia. Il racconto dell’inganno si snoda lento e sincopato, a volte ridondante, con qualche buco di sceneggiatura e lungaggine di troppo; ma l’accuratezza dei costumi e dell’ambientazione ci rimanda a tempi andati in cui, forse, le vicende si svolgevano davvero così. Di certo, così venivano girati i film; video patinati, capigliature fonate e tanto, tanto glamour! Una messa in scena fantastica.
Altrettanto magnifico è Christian Bale, col suo più che astuto lestofante dal “riportino” come “Tallone d’Achille”. Nevrotico, paranoico, calcolatore, indecoroso ai limiti della decenza, sbattuto sullo schermo così com’è, senza paura di mostrarsi, abbietto e patetico. La prima sequenza, nella quale ci viene presentato, non può che  rimandarci ad un arguto parallelo: l’omuncolo che si dedica all’accurata architettura della pettinatura, nel disperato tentativo di nascondere la calvizie incipiente che lo affligge, per poter vestire con maggior credibilità i panni del boss ha lo stesso sguardo compiaciuto di Patrick, folle omicida in “American Pshyco”. La preparazione mattutina, la voce fuori campo che descrive i singoli passaggi sono identiche ma siamo agli antipodi; goffo e sgraziato l’uno, bello come il sole l’altro. Patrick si prepara con maniacale dedizione in un appartamento fantastico che guarda Manhattan mentre Irving lo fa in un albergo senza nome. Se il primo si galvanizza alla luce della sua mente malata, curando il corpo come un tempio per prepararlo al contatto col mondo, il secondo lo fa difendendosi dallo scherno, confrontandosi in solitudine col suo fisico sfatto. Bale interpreta entrambi con uguale accuratezza e precisione mettendo in Irving tutta l’umanità che non può concedere a Patrick, intriso di follia. Una prova d’attore fantastica che parte dal fisico per modellare l’anima, dedicata però ad un film che lo tira a fondo, impedendogli di mietere premi.
Sullo sfondo, una storia d’amore che sdogana tutti i personaggi in un finale di assoluzione corale in cui la grande menzogna finisce per rivelarsi plateale cinismo ed ognuno vomita la sua verità senza appello.

Omnia vincit amor… davvero? 

lunedì 14 aprile 2014

Io sono Li


Italia, 2011
Di Andrea Segre
Li è un’operaia cinese strangolata dalla mafia e manipolata come una pedina, spostata sul territorio italiano dove serve, mutevole e camaleontica su richiesta dei suoi “padroni”. Lavora come un’operosa formica per pagare il suo debito e riabbracciare il figlio. La scena dominante si sposta a Venezia, tra le sue calli nebbiose e desolate, umide, fredde, apatiche. Un non luogo sul quale affaccia il bar che Li va a gestire, tradotto in realtà come una taverna d’altri tempi, punto d’accumulazione di personaggi che vivono e muoiono lì dentro in attesa che il tempo scorra e il vino scadi le loro vene.
Li non riesce ad esercitare il distacco che le viene imposto e cerca un po’ di umanità nei rapporti distaccati coi clienti, fuori dalle quattro mura che condivide con una compagna con la quale parla poco ma condivide la schiavitù. Incontra “il poeta” che non le chiede nulla ma col quale alimenta giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo, un rapporto tenero ed innocente, in cui due solitudini totali comunicano alla ricerca di umanità. Scoperta ancora una volta dai suoi aguzzini sarà trasferita da un giorno all’altro e il rapporto reciso come un fiore. La distanza ucciderà tutto: sentimenti, persone, leggerezza in un appiattimento verso la disumanizzazione imposta. Ma il cuore batte nonostante l’oppressione e Li potrà realizzare il suo sogno seppur a caro prezzo.
Un film semplice, tracciato con poche battute e molti sentimenti, girato da un italiano, in un Veneto che anticipa di qualche anno le necessità secessioniste, con un sorprendente risultato che lo avvicina in modo potente alle atmosfere della migliore cinematografia cinese.
Interpreti intensi ai quali visi scolpiti nella pietra e levigati dalla salsedine della laguna è affidato il duro compito di trasmettere un empatico senso di oppressione e al tempo stesso di rivoluzione. Compito assolto doverosamente, sul quale regna sovrano il più profondo dei sentimenti: l’amore materno che va oltre ogni umana consapevolezza.
Andrea Segre, regista di documentari, firma per la prima volta questo lungometraggio che arriva diretto al cuore in un lento percorso evolutivo che nei suoi 98’ scioglie anche i cuori più duri.
Bellissima Tao Zhao nella sua interpretazione asciutta e sensibile, concentrata nel profondo sguardo materno. Rade Serbedzija la affianca dando vita ad un personaggio disperatamente umano.

Intenso

lunedì 10 febbraio 2014

Come l’acqua per gli elefanti


Usa, 2011
120’, colore
Dopo la morte dei genitori, la vita di Jacob Jankowski viene sconvolta. Abbandona gli studi di veterinaria ed inizia ad errare in fuga dalla realtà. Approda fortunosamente in un circo dove verrà assunto come veterinario ma il suo destino sarà ben diverso.
L’incontro con la bellissima Marlena e con il di lei marito August lo porteranno a superare ogni inibizione nel perseguimento della felicità.
Siamo di fronte ad uno dei film più visti della scorsa stagione cinematografica; tratto dal romanzo omonimo di Sara Gruen custodisce il suo successo nella favolistica ambientazione del circo. La storia è già vista, gli attori sono noti e sufficientemente bellocci, il ritmo a volte è lento ma “Come l’acqua per gli elefanti” ha in sé non solo la magia del circo ma anche il fascino dei ricordi, così impostato come flashback che trascina noi tutti sin dai primi fotogrammi in un piacevole viaggio a ritroso nel tempo in quell’America che avremmo voluto conoscere, muovendoci tra personaggi che potrebbero esser stati i nostri nonni.
Plurinominato e premiato il film può confidare su costumi da sogno ed interpreti di livello.
Robert Pattinson abbandonati i panni del tenebroso vampiro di Twilight dimostra di saper recitare e che un po’ colorito gli dona. La partner femminile Reese Witherspoon bellissima nei panni di Marlena è intensa e sensuale facendo dimenticare la performance più nota de “La rivincita delle bionde”; il tempo le ha donato fascino e dimostra di saperlo usare. Christoph Waltz infine, sull’onda dei grandi successi degli ultimi anni a partire da “Django” di Quentin Tarantino, forse non sarà di primo pelo ma si conferma ottima rivelazione dell’ultimo periodo.
Una pellicola d’intrattenimento spettacolare e romantica da vedere in famiglia per apprezzare il tempo che fu.

Gradevole.

martedì 14 gennaio 2014

La mafia uccide solo d'estate


di Pierfrancesco Diliberto Pif
Italia, 2013
colore 90'

Pif: ex VeeJay ed ex Iena, titolare di un programma che dirige e realizza, “Il testimone”, in onda su Mtv; camera a mano, descrive e racconta le diverse categorie umane con sottile ironia. Ironia e acume che ha messo in “La mafia uccide solo d’estate”, definito il più bel film di mafia mai girato.
Non ci si aspettava tanto ma ha dato moltissimo per descrivere la sua terra, martoriata da un nemico nemmeno tanto occulto, che esplose proprio negli anni in cui lui, bambino, iniziava a guardare con occhio critico il mondo.
Il film narra la storia di Arturo (forse autobiografica?), innamorato di Flora e con la passione per il giornalismo che vince un concorso di scrittura e diventa giornalista per un  mese. Arturo, ammiratore di Andreotti ed inconsapevole testimone di tutti i grandi eroi di Stato. Il generale Dalla Chiesa, Giorgio Boris Giuliano capo della Polizia, i giudici Borsellino e Falcone e molti altri, martiri della giustizia che incontra nella sua Palermo; persone qualunque che gli parlano come visioni illuminate di un’Italia martoriata ma con la giusta accortezza necessaria a spiegare l’orrore ai bambini.
Quell’orrore Arturo lo sperimenta per le strade, nella gente, negato dalla famiglia che minimizza omertosa o inconsapevole forse, di sicuro spaventata da una guerra che vive.
Nel film c’è spazio anche per i mostri di mafia, sapientemente descritti senza mai essere realmente accusati; macchiette che uccidono davvero.
La consapevolezza di Arturo si incarna nell’amico giornalista, quello vero che cerca di aprirgli gli occhi senza violenza ma con la dolcezza di chi constata il candore dei bambini. Candore che Arturo conserva da grande, quando ritrova Flora ed insieme cercano una nuova coscienza. Un futuro sincero per i loro figli.
 Cristiana Capotondi accompagna Pif in questa storia lieve e violenta, autentica e profonda che commuove. Un film in punta di piedi, asciutto, forte dell’unica arma che abbiamo:  la verità.

Imperdibile.