di Werner Herzog
Germania, '79
Olanda, metà ottocento. L’agente
immobiliare Johnatan Harker viene inviato in Transilvania per chiudere un
contratto d’acquisto con il Conte Dracula, determinato a trasferirsi nei Paesi
Bassi. Durante il viaggio Johnatan si cala in un’atmosfera paurosa dettata dal
mistero che aleggia intorno alla presenza del nobiluomo. Determinato a
concludere l’affare approderà al castello ma dovrà constatare suo malgrado che
le leggende intorno al conte sono vere: il conte è un vampiro di antica stirpe
che non esiterà a farne sua vittima prima di solcare il mare per raggiungere
l’Olanda e l’amata Lucy, devota moglie di Harker con la quale si è instaurato
un singolare legame telepatico. Una volta arrivato, il conte dilagherà per le
vie della città come un morbo mefitico e travolgerà con sé giusti e malvagi.
Traendo libera ispirazione dal
romanzo “Dracula” di Bram Stoker ed omaggiando il “Nosferatu” di Friedrich
Wilhelm Murnau del 1922 Werner Herzog si impegna in un remake che rimane nella
storia del cinema. “Nosferatu il principe della notte” è un film asciutto, tetro,
con qualche trovata tecnica che oggi fa sorridere come il montaggio del volo
del pipistrello ma che mantiene attualissimo il suo messaggio di rottura coi
tempi. Herzog vuole realizzare un grande film e ci riesce; nessuno meglio di
lui sa trasporre la figura macabra del vampiro in un’ottica tanto umana.
Nosferatu risveglia le paure ataviche e lo fa con un’eco dolente di giorni
perduti. La sua moderna chiave di lettura apre le porte della paura attraverso
le vesti spoglie di un antieroe che atterrisce ma al tempo stesso attrae. Pur
mostruoso è romanticamente vulnerabile, tanto da suscitare pietà nello
spettatore che ne rimane suo malgrado affascinato, vittima consenziente delle
sequenze più violente. Ma la violenza è solo suggerita in un gioco di non visto
che lascia tanto spazio all’immaginazione da non avere limiti. Il pubblico come
Johnatan Harker viene stregato senza opporsi, prosciugato di ogni volontà,
prostrato di fronte alla potenza del “principe della notte”. Mito o leggenda
c’è bisogno di credere in qualcosa di spaventoso ma al tempo stesso così umano
da permettere una totale identificazione nel pubblico; Herzog dirige un
magistrale Klaus Kinski che attinge a tutte le sue doti più introspettive per
portare in scena un mito. Se è vero che “non c’è piacere uguale alla paura”
[cfr. Clive Barker] è altresì vero che questo vampiro entra sotto pelle come un
cancro maligno impossibile da estirpare. Il suo viso tagliato con le luci,
emerge dal buio, nelle scene salienti, di lunghi primi piani interamente
omaggianti l’estro di Kinski e al mito di Murnau. Klaus accetta la metamorfosi
e ci regala il più bel “non morto” della storia del cinema, grazie a un po’ di
cerone e pochi artifici. Il suo viso irrompe prepotente sullo schermo come una
maschera perfetta che incarna il dolore del mondo: rughe e pieghe autentiche
intorno ad enormi occhi espressivi che riescono a guizzare da una lacrima di
malinconia a bagliori di lucida ferocia. Non c’è recitazione ma solo
immedesimazione per una prova d’attore magistrale per la quale impegna tutta la
sua follia nell’interpretare l’essenza dell’angoscia per una vita eterna. I
monologhi esplicativi dalla solitudine cosmica all’amore eterno esplodono il
concetto di inutilità dell’esistenza laddove vissuta nella ripetizione delle
banalità quotidiane ma risultano a tratti ridondanti perché filtrati da un
volto perfetto che già attraverso il suo sguardo ipnotico trasmette molto di
più. Nosferatu è inquietante e disturba con la sua presenza netta e catartica;
il suo incedere lento, le sue movenze eleganti che a tratti diventano
animalesche laddove la sete di sangue viene innescata da un gesto anche banale,
hanno la magia di una danza. Le mani che non gesticolano ma strisciano intorno
agli oggetti, sinuose, con le unghie lunghe e viscide da rapace, sono pronte ad
aprirsi in artigli mortali la quale violenza è solo profetizzata. La pellicola
trasuda della presenza del vampiro sebbene compaia soprattutto nella prima metà
del film, laddove viene creata attesa, angoscia e profetico smarrimento; poi
brevi shot in mezzo ad altre
sequenze, per ricordare che lui c’è. Nosferatu come presenza in uno specchio
senza riflesso, in una stanza vuota, accanto a chi dorme sotto forma di vento
leggero; la paura viene insegnata dal primo fotogramma per non lasciar più lo
spettatore, per concludere con un finale senza speranza. L’arte del terrore
senza mostrare va in aiuto della sceneggiatura che riesce a vivere di quel
senso di presagio e di tormento cadenzati dalla colonna sonora cantilenante che
ricorda un vento foriero di cattive notizie. La musica come un coro greco a
sottolineare i momenti chiave, a cadenzare i battiti del cuore per spingerli sempre
più in là catalizzando l’attenzione oltre la consapevole volontà. In questo
clima lugubre Herzog inserisce delle figure allegoriche di singolare bellezza:
il piccolo violinista testimone della prigionia di Harker e la peste dilagante.
Entrambe figure teoriche e non personaggi reali, identificano la coscienza il
primo e il male la seconda. La scena del banchetto durante la peste in cui la
follia dilaga laddove tutto è ormai perduto, rappresenta la resa degli uomini
alla lotta al male; un pasto fra prossimi fantasmi di fronte ad una Lucy che
rimane solida nella sua fede e nella sua lotta. E’ lei l’ultimo baluardo ed è a
lei che Herzog affida la magia della seconda parte. Stravolgendo i ruoli che
Bram Stocker assegnò ai personaggi, il regista gira con camera a mano quasi
tutte le scene d’azione per trasmettere un maggior realismo ed instillare la
sensazione di preda nello spettatore. Sarà Lucy a guidare la lotta contro il
vampiro, unica ad aver realizzato e capito il senso della tragedia che travolge
la cittadina, armata solo del suo amore per il marito e della sua fede. Omnia vincit amor; Lucy contro la morte,
la luce contro l’oscurità, l’amore puro contro il desiderio. Nella versione di
Herzog è l’amore l’unica arma possibile spostando su un altro livello la lotta
contro il male; ma poiché il film nasce dal dolore, se il male può soccombere
di fronte all’amore è anche vero che l’amore può essere risucchiato da
rinnovato male, in una lotta senza soluzione di continuità. L’unica vera forza
del film è proprio questa, l’impossibilità di abbassare la guardia e potersi
abbandonare ad un rassicurante lieto fine, la certezza che nessun gesto, anche
il più estremo, possa essere sufficiente. Nella visione pessimistica del
regista non c’è spazio per il romanticismo sebbene vettore delle vicende ed
elegante scelta stilistica. Un film intelligente ed appassionato
sull’esistenzialismo, unico nel suo genere così viscerale e coinvolgente come
il suo protagonista. Nosferatu è la più bella dichiarazione d’amore che possa
esistere e al tempo stesso una pesante richiesta d’aiuto da parte di chi non
riesce più a vivere in un mondo fatto di “futili cose”. La condanna del mostro
non è la solitudine ma la banalità e l’impossibilità di vivere un’esistenza più
piena fermando il tempo. La denuncia di Herzog è attuale ancora oggi a trent’anni
di distanza perché c’è immedesimazione tra il suo Conte ed ognuno di noi, oltre
che sé stesso. Il connubio tra il regista e Kinski permette di mettere in scena
la magia di una perfetta rappresentazione delle umane miserie come nella scena
chiave del banchetto. Prendendo in
prestito le atmosfere dei pittori fiamminghi si ha una rappresentazione
teatrale armoniosa e compenetrata dello spirito dell’epoca. Lo scenario
naturale della cittadina tedesca di Delft rimanda ad un clima da operetta
mentre l’incubo viene fatto serpeggiare libero come le centinaia di topi che ne
invadono le strade. Per sua stessa ammissione, “Nosferatu il principe della
notte” è il primo film che “va oltre la
sua persona” perché impone a Herzog delle regole necessarie per farne il remake
perfetto dopo sessant’anni. Con esso viene stabilito un legame tra il Grande
Cinema degli anni venti e l’espressionismo tedesco dei primi anni ottanta. Prelevando
movenze dal cinema muto degli anni venti e surclassando il lungo elenco di
pellicole dedicate all’elegante conte Dracula, infatti, Herzog compone a 35
anni un’opera unica per finezza stilistica e semplicità espressiva. Come il suo
mostro va in scena senza troppi fronzoli, la sua regia è limpida ed alterna
scene lugubri ad altre aperte e luminose, come estrema sintesi della vicenda
d’amore e morte che narra.
Nonostante l’istrionica presenza
di Klaus Kinski è doveroso ricordare gli altri protagonisti: una Isabelle
Adjani di rara bellezza, luminosa, eterea, botticelliana ma anche cupa e
determinata, moderna eroina pronta a tutto pur di sconfiggere il male e Bruno
Ganz che riesce a rimanere tra le righe per tutto il film interpretando il
ruolo del principe coraggioso, ma in grado di emergere improvvisamente in un
geniale colpo di coda che raggela.
Commovente, profondo, potente,
romantico: un capolavoro senza tempo.
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