“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”
sabato 29 dicembre 2012
Troppo Amici
Francia, 2009
Tre fratelli, molto legati, intrecciano le loro vite alla ricerca della realizzazione sociale di ognuno.
L'avvocato mediocre con la moglie ambiziosa, la dolce Nathalie con l'infantile marito Alain e Roxanne, alla disperata ricerca di un padre per i suoi figli.
Tutti i temi più scottanti della vita di coppia quali l'incomunicabilità, l'inadeguatezza e l'insoddisfazione per una condizione mai sufficientemente importante, vengono affrontati ma con una vena ironica al limite del demenziale.
I personaggi sono così sopra le righe da essere caricaturali ma non così comici da risultare divertenti. Le gag scontate, la recitazione ostentata e le conclusioni tanto forzate da non invogliare la visione del secondo tempo di un film che avrebbe avuto i presupposti per decollare ma che si sgonfia già dopo il primo quarto d'ora.
Le sequenze troppo lunghe, i ralenty abusati, i primi piani iterati; il film non è insostenibile ma semplicemente inutile.
giovedì 20 dicembre 2012
Una famiglia perfetta
di Paolo Genovese
Italia 2012
Interno giorno.
Uno ad uno entrano in scena i componenti di una famiglia italiana, impegnati nei preparativi della vigilia di Natale. Casa da rivista e modi garbati. Poi arriva Leone e d'un tratto qualcosa s'inceppa.
Inizia così il film di Paolo Genovese, da qualcuno definito una commedia all'italien per indicare quel tipo di commedie un pò più sofisticate di quelle italiane che strizzano l'occhio ai modi sagaci del miglior Ozòne.
Le prove d'attore di nomi del calibro di Castellitto, Giallini e anche perchè no, Gerini, sono supportate da un'ottima sceneggiatura che se dapprima punta tutto sulla commedia, tiene in caldo un colpo di scena dietro l'altro, condito da cambi di direzione e nuovi elementi che porteranno solo nell'ultima scena al totale chiarimento del senso del film.
Molto divertente.
E' la commedia degli equivoci a partire dal fatto che la "famiglia perfetta" innanzitutto non è una famiglia ma solo una compagnia teatrale scritturata da Leone per oscuri motivi. Niente volgarità ma un sottile gioco delle parti che impegna gli interpreti fotogramma per fotogramma chiedendo a turno, ad ognuno di loro, di diventare protagonista. E lo fanno talmente bene che ci si riesce ad appassionare alle singole vite un pò come accadeva nei film di Monicelli; casale in Umbria o in Toscana cosa cambia? Le vicende s'intrecciano e si dipanano come colori su di una tavolozza per dare un affresco spumeggiante e realistico, seppur nella finzione della finzione. Un meta-film centrato sul teatro, ma l'unica vera rappresentazione è quella della vita e, se la commedia rimane il tema di fondo, a tratti spuntano note drammatiche con piccole incursioni nella vita dei personaggi che vogliono essere una riflessione su quella di ognuno di noi.
Un pò ruffiano forse? Forse sì, ma la storia è rappresentata in maniera così divertente ed interpretata così bene che si può concedere qualche scivolone nello sdolcinato senza però risultare mai squilibrato.
Carino, finalmente un film che, pur uscendo sotto le feste di Natale, non ci fa rimpiangere di esser rimasti a casa davanti alle luci dell'albero.
La sequenza sulle regole della tombola è imperdibile.
martedì 4 dicembre 2012
L'aria salata
Italia 2006
Fabio assistente carcerario riconosce in un nuovo detenuto il padre che ha abbandonato lui e la sua famiglia molti anni prima.
Inizia una guerra al massacro fra i due che li porterà ad una resa dei conti e ad un'epilogo inatteso.
Un film particolare che affronta più temi in uno; il dramma dei carcerati, il rapporto genitori-figli, le famiglie sbagliate, l'emarginazione... sotto tanti punti di vista.
Troppa carne al fuoco forse.
I premi vinti (David di Donatello, Roma Film Fest e Flaiano Film Festival) preludono ad un coinvolgimento emotivo che manca. Il film è troppo convulso, a tratti noioso, seppure bravi gli interpreti. Non c'è claustrofobia, non c'è pianto, non c'è sufficiente disperazione per convincere a fondo della realisticità dei fatti.
... che a volte sanno essere molto più drammatici della finzione.
Il film passa e va, lasciando un senso d'artificiosa confezione che non accosta mai veramente al dramma dei personaggi.
I confronti verbali come pietre scagliate rimangono sospesi a mezz'aria; nulla colpisce davvero come i pugni allo stomaco che dovrebbe dare.
C'è un senso di rimpianto, alla fine della proiezione per una pellicola che avrebbe potuto fare molto ed invece resta tiepida. La ripetitività delle scene porta ad una disaffezione e conseguente afflosciamento nel finale; un vero peccato per un film che parte con la giusta tensione.
Buona l'interpretazione nervosa di Giorgio Pasotti che piace molto, ma il suo spazio evapora come una corsa troppo rapida.
sabato 24 novembre 2012
In the mood for love
di Won Kar Wai
Interessante l’uso della colonna sonora.
giovedì 22 novembre 2012
Dolls
martedì 20 novembre 2012
E' stato il figlio
di Daniele Ciprì
Italia 2012
colore - 90
Ricorderò questo film come l'unico che mi ha lasciata a singhiozzare anche una volta accese le luci della sala.
Il cast noto di caratteristi è capeggiato da un Toni Servillo irriconoscibile, stravolto nei tratti e nelle movenze ma così vero e convincente che cattura ed ipnotizza dalla prima inquadratura. Ora sornione, ora ridicolo, a tratti violento, la sua maschera patetica è una sintesi perfetta dell'italiano meno abbiente con il suo bagaglio di miserie e delusioni.
Il ruolo di Nonna Rosa è affidato ad Aurora Quattrocchi che costantemente sullo sfondo per tutto il film, esplode nell'ultima scena chiave, in una progressione violentissima che la trasforma in un'erinni diabolica, per poi tornare remissiva e taciturna. Domina il primo piano lunghissimo, inchiodando la platea con questa personificazione della mafia che parla per sua bocca e che schiaccia la volontà di tutti gli astanti senza possibilità di replica.
I toni comici s'insinuano nella trama tragica attraverso mille piccole sfumature pronte ad esser lavate via dall'epilogo aberrante. Il coro, nei panni di uno spettatore in abito scuro, sottolinea i punti salienti.
Sopra tutti i personaggi, incombe il senso di tragicità come in un teatro di pupi che abitano nelle mura di un castello, inespugnabile come il caseggiato dei protagonisti. Ed ancor più incombente è il senso di devastazione e di assoggettamento all'idea di mafia per cui tutto ciò che avviene viene reso e fatto in famiglia. Tutto ciò che accade ha senso solo se riconducibile ai soldi. Anche gli affetti sono un mezzo per sbarcare il lunario e dalla disperazione più cupa può nascere la speranza di una vita migliore, anche se solo agli occhi di chi guarda.
Il sentimento di perdita, di abbandono, di solitudine di desolazione permeano la scrittura al punto da risvegliare nello spettatore le paure più recondite e fargli sposare completamente le emozioni dei protagonisti ma non tanto da un punto di vista sentimentale, bensì da quello concreto di chi non ha alternative di come affrontare il mondo.
La fotografia di Ciprì è una tavolozza dalla quale attingere tutti i colori per descrivere gli stati d'animo che si susseguono sullo schermo e che impreziosisce ogni sequenza al punto da consegnare questa piccola gemma nell'empireo dei film politicamente scorretti e stilisticamente ricchi così diffusi in Italia, così poco capiti all'estero.
Questo sì che è cinema.
lunedì 19 novembre 2012
Diaz
di Daniele Vicari
I fatti del G8 raccontati a partire dalla morte di Carlo Giuliani, pone Vicari al di sopra delle parti, riguardo alle considerazioni del caso. Non si schiera, non accusa, non discolpa ma inizia da lì la sua narrazione, a partire da un clima claustrofobico e compromesso al punto da opprimere chi al G8 è rimasto, nonostante ormai, la guerriglia fosse dilagante.
Descrive i buoni e i cattivi, ce li mostra, li presenta e li segue nelle loro azioni, costringendoci a guardare ciò che fu commesso.
Il senso d'impotenza di fronte a quanto non appartiene ad un passato remoto ma alla storia di tutti noi (chi non ricorda cosa faceva durante quella settimana? Chi non lesse le cronache in tempo reale? Chi non si è schierato per una o l'altra parte?) rimane, pesante, al termine della proiezione. L'orrore per quei manganelli in faccia a ragazzi arresi, a mani in alto, le urla di chi, inseguito, ha cercato scampo, i denti persi, le chiazze di sangue che si allargano sotto i corpi inermi; tutto questo non può essere dimenticato e se vuole puntare il dito contro i potenti, di sicuro, il film lo fa anche salvandone le falangi armate.
La voglia di gridare "basta" nasce da dentro e diventa quasi un grido fisico; difficile la visione che disturba al punto da essere a tratti insostenibile.
La guerra, anche quando è sotto casa, è orribile per il contributo di sangue che chiede, lucidamente, facendo un bilancio costi/benefici e triturando tutto quanto si trova sul suo cammino.
Non ci sono guardie, nè ladri, ma solo uomini travolti da un evento rivelatosi più grande di loro, compreso chi, ha creduto di poterne dominare le conseguenze.
L'inquadratura dei caschi blu che irrompono nella scuola, attraverso il portoncino principale, sbattendo e spingendosi, accompagnato dalle urla, dal rumore plastico degli scudi antisommossa e degli anfibi sul pavimento trasmette l'incapacità di arginare un dramma annunciato e l'inerzia col quale fu respinto, come mille biglie in un flipper troppo vecchio.
Lo sdegno, segue lo spettatore fuori dalla sala per quel senso d'impotenza nel non aver fatto nulla allora dimenticando troppo in fretta.
Un ottimo Vicari che, dai tempi di "Velocità massima" ha fatto un considerevole salto di qualità.
La classe operaia va in paradiso
Di Elio Petri
L'uccello dalle piume di cristallo
Di Dario Argento
Ialia/Rft, 1970
Colore, ‘96
“E’ la malinconia, il cuore che gronda di emozioni e tutta la scena che gronda di musica”
“La casa dove si svolge la storia non è altro che un organismo vivente”
(Dario Argento)
Sam Dalmas, scrittore americano, assiste ad un tentativo di omicidio in una galleria d’arte; riesce a salvare la vittima ma l’assassino inizia a dargli la caccia. Intraprende un’indagine personale, certo di essere a conoscenza di un dettaglio che lo aiuterà a risolvere il giallo. Tra delitti e colpi di scena, giungerà ad un’inquietante conclusione.
Primo della trilogia sugli animali insieme a “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”, “L’uccello dalle piume di cristallo” è anche il capostipite della produzione di Dario Argento, padre del moderno horror all’italiana.
Tenuto a battesimo da padrini d’eccezione quali Vittorio Storaro per la fotografia ed Ennio Morricone per le musiche, l’allora poco più che ventenne Dario, scrive, gira e produce un giallo intelligente e denso di suspense che già prelude alla delirante esplosione di tensione e sangue, dei film futuri.
Figlio del suo tempo, con un’anima rock, dimostra di aver ben appreso le lezioni di maestri come Mario Bava che in questo film, ritorna in piccole citazioni tratte dal suo “6 donne per l’assassino”, in particolare. Il clichè dell’assassino in impermeabile, guanti e maschera, i delitti efferati e fantasiosi, le vittime fotografate come manichini e non donne in carne ed ossa, sono un continuo richiamo alla scuola di Bava che qui si arricchisce di una veste più concreta e meno manierista, tale da conferire maggior realismo ai fatti e per questo, maggiore spavento nello spettatore.
La paura, per Dario Argento, nasce dall’essere comune; l’assassino come una persona qualsiasi, anche noi stessi. Ecco la chiave del terrore che qui si presenta in tutta la sua essenzialità, sfrondata dall’apparato gore dei successivi anni ‘70.
L’assassino è guidato dal germe della follia che esplode ad un banale innesco e che pertanto resta imprevedibile quanto indomabile. Esseri umani come mine vaganti, pronti a deflagrare in tutto il loro orrore, trascinando con sé vittime innocenti quanto casuali. L’imprevedibilità dell’omicida è il segreto dell’angoscia che trasuda in tutta la sua opera, determinando una totale identificazione dello spettatore non tanto con la vittima, quanto coi protagonisti, sapientemente tracciati come “eroi per caso” coinvolti loro malgrado, incapaci di sottrarsi agli eventi.
Paladini in jeans e mocassini; gente disarmata e spaventata che incarna tutta l’umana pavidità di fronte alla morte, ma che procede incrollabile alla ricerca della verità, ipnotizzata da affascinanti sirene dal tetro richiamo.
“L’uccello dalle piume di cristallo” è un’opera prima significativa, in cui già coesistono tutti gli elementi che verranno sviluppati in futuro, in un crescendo di efferatezza e delirio che raggiungeranno il culmine di perfezione in “Suspiria”.
Il perfetto equilibrio tra effetti visivi e sonori fa scuola per le generazioni future.
Tanto la musica quanto la sua assenza, sono utilizzate per sottolineare dei momenti cruciali; il silenzio come musica emotiva e non uditiva, scatenata dalla tensione delle immagini e da quella accumulata nelle sequenza precedenti. Le voci, quasi in presa diretta, sono suoni duri che colpiscono con precisione lo spettatore, concentrando la sua attenzione sul dettaglio narrato, avvincendolo in una morsa d’angoscia che sale fino ad un momento di tale insostenibilità in cui la musica irrompe violenta e stridula, in una concezione quasi rumorista. Non già melodia, ma suoni di corde pizzicate, stridenti e stonate, alternate a canti di donne e sonorità meccaniche. Suoni protagonisti della vicenda, come il canto di un uccello o una folle risata scellerata.
Musiche come traccia ispiratrice per una vera scuola dark sintetizzata dai Goblin nei film successivi.
Il cinema di Dario Argento è musica per le orecchie e droga per gli occhi.
La raffinatezza delle immagini non cede mai completamente il passo alla violenza.
Le scelte scenografiche coadiuvano gli attori nella costruzione dei personaggi fino a rubar loro la scena con dettagli architettonici come scale a tromba triangolare, facciate di palazzi neoclassici, porte a vetri ad intercapedine.
Un’esplosione di luce, un bianco accecante, nella scena principale del film per descrivere la galleria d‘arte; il protagonista, come lo spettatore, sono messi in grado di carpire da subito la soluzione del giallo. Tutti gli elementi essenziali sono davanti ai loro occhi, come su di un palcoscenico. L’unica scena realmente illuminata è tale da insinuare il dubbio di aver visto il dettaglio chiave; è un gioco da illusionisti. Mostrare per meglio nascondere ed anche i successivi flash back in fermo immagine, serviranno ad alimentare la morbosa scoperta del particolare.
Le sculture fantasy presenziano la scena del tentato omicidio senza far ombra agli attori bensì conferendo una tetra alea di morte, semmai ce ne fosse stato bisogno, con la loro immota presenza gotica. Le sagome plumbee che si stagliano nel bianco rigore della scena fanno da cornice alla macchia rossa di una lei ferita a morte, che ha lo stesso rosso nei capelli e in quella supplice mano che implora aiuto. Una mano che ritorna, come immagine di disperazione in questo cinema dell’orrore, molto più carica e spaventosa, nella scena del delitto della medium in “Profondo rosso”.
Se gli interni celano misteri, cadaveri e assassini, illuminati da lame di luce e porte sul buio, gli esterni non sono da meno, che si tratti di un cascinale abbandonato nella nebbia o di un vicolo buio.
L’ambientazione romana con le sue strade d’acciottolato e i suoi palazzi antichi, trasuda un senso di desolazione. La fotografia ad ombre lunghe, contribuisce a dipingere una città senza scampo, cupa e desolata, disseminata di lamiere e palazzi fatiscenti, in totale sintonia con lo stato d’animo dello spettatore che vive l’angoscia di una città decadente che nasconde l’assassino e minaccia le vittime.
La scelta della costante penombra negli interni, anche in pieno giorno, obbliga l’occhio a strizzarsi alla ricerca di un dettaglio, innescando una concentrazione da scioccare con repentini flash in cui le lame affondano e il sangue sgorga sullo schermo o stenta a farlo, ma costringendo comunque lo spettatore a continuare a guardare.
E’ lo sguardo il vero principe dell’inquadratura; che sia un primo piano di occhi spaventati o la soggettiva dell’assassino, è comunque impossibile distoglierlo da ciò che accade, per un effetto di fascinazione che cresce durante il film e culmina solo svelando la verità, in un’avvincente tortura di movimenti di camera.
Profumo. Storia di un assassino
Tratto dal romanzo “Il profumo” di Patrick Suskin, quindici milioni di copie vendute e tradotto in quarantacinque lingue, compreso il latino, “Profumo. Storia di un assassino”è stato premiato con lo European Film Awards nel 2007 come miglior fotografia ad opera di Frank Griebe.