La classe operaia va in paradiso
Di Elio Petri
Italia 1971
Colore 125
Lulu’ Massa, 31 anni, è un
operaio della BAN.
Pluripremiato emblema di
produttività è l’uomo simbolo della politica della produzione a cottimo. Odiato
dai compagni ed encomiato dal padrone, vede la sua vita cambiare il giorno che
resta vittima di un incidente sul lavoro. Sconvolto dalla mutilazione, inizia a
cercare conferme fuori e dentro la fabbrica, arrivando a schierarsi con la
protesta operaia, fino ad essere licenziato per motivi politici.
Senza lavoro né famiglia, sembra
destinato ad una solitaria follia quando i sindacati riescono a farlo
riassumere restituendogli la vita.
Film che ha disturbato la classe
politica italiana in tempi di lotte operaie, “La classe operaia va in Paradiso”
colpisce ancora oggi per la lucidità con la quale descrive l’alienazione del
lavoro in fabbrica e le miserie umane che da esso derivano e lo abitano.
Petri, si scaglia ancora contro
lo Stato, dopo la spallata di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni
sospetto”, avvalendosi dell’opera di Gian Maria Volontè, suo attore simbolo che
qui regala al cinema un personaggio da antologia.
Il suo Lulù è la classe operaia
in una sola geniale sintesi.
In totale simbiosi con la
macchina, tanto da dichiararsi ”una vite, un bullone, un pezzo di quella
macchina che costruisco”, è totalmente asservito alla produttività, facendo
della sua spersonalizzazione oggetto di vanto. E’ l’operaio perfetto, servo del
padrone, rispettoso delle regole ed orgoglioso di dimostrare di riuscire a
lavorare più veloce della macchina, a dispetto dell’umiliazione dei compagni.
E’ concentrato, concentrato su quel pezzo che produce, ad occhi fissi e denti
digrignati, in un costante grido di rabbia, convulso, fino allo scoccare
dell’ottava ora di lavoro, quando torna a casa e si lascia cadere di fronte ad
un televisore perennemente acceso a parlare di cose che non ascolta e non
capisce, in una luce blu da sogno, senza guardare in faccia la sua donna, il
suo bambino.
Lavora per combattere la noia
delle otto ore, per mantenere le due famiglie che perde ogni giorno di più,
mantenendo la fredda lucidità di chi si spinge a capire fin dove gli viene
dato.
“Tutto va bene fin quando fai
quello che dice il padrone, ma quando apri gli occhi, non si può più tornare
indietro”. E li apre gli occhi Lulù; li apre quando la macchina gli mozza un
dito, quando si abbandona alla rabbia per l’odio dei compagni e alle carezze
alla giovane operaia.
Apre gli occhi quando cede il
passo alla sua umanità, così repressa da riuscire a godere solo di fronte alla
macchina e non più fra le braccia di una donna.
E quando apre gli occhi è solo un
simbolo; fomenta la lotta travolto dall’osannare dei protestanti, si batte, si
schiera, arringa e viene cacciato, lui solo perché l’unico ad aver alzato
realmente la testa. Il migliore operaio che si sgancia dalla catena di
montaggio e si rivolta contro il padrone. Lui deve essere schiacciato,
annullato, ridotto come il Militina, vecchio pazzo che cerca ancora di
abbattere il suo muro, fra le pareti fredde di un manicomio, ma che a sprazzi
di lucidità lo guida alla consapevolezza.
Non è l’intelligenza ma l’istinto
a guidare Lulù alla lotta e, quando viene allontanato, quando non è più preda
del bagno di folla che lo espone ogni mattina come vessillo della lotta, si
ritira nel suo guscio scomparendo alla vista. Emblematica la scena, in cui
accatasta su un tavolo oggetti inutili che descrive e stima in prezzo di ore
lavoro; premi ridicoli per una vita buttata nel caos della fabbrica, a farsi
sputare in faccia schiuma da un tubo bollente; quattro sveglie, tutte pronte a
ticchettare per buttarlo giù dal letto e incanalarlo in quel fiume di “anime
prave” che varca ogni mattina i cancelli della fabbrica. Gente senza
un’alternativa che lotta per evadere dalla catena di montaggio ma che non può
fare a meno di tornarvi, come un cane alla catena.
Quando la lotta sindacale riesce
a riportarlo al suo lavoro, Lulù non gioisce; inebetito non fa altro che
riprendere posto alla sua macchina che gli rende nuovo vigore e lo restituisce
leader di un gruppo di pecore convinte di aver lottato senza aver capito per
cosa.
Bellissima l’ultima scena di
operai al lavoro, che parlano fra rumori assordanti, travisando ogni parola,
traendo conclusioni inverosimili e rallegrandosi chissà per cosa mentre
partecipano al sogno di Lulù che conquista il Paradiso nella nebbia, in
un’allegorica liberazione dalla consapevolezza ed un ritorno al conforto della
catena di montaggio che è l’unico posto in cui riesce ad essere veramente
libero.
Tutti presenti gli elementi della
contestazione, dai sindacati agli studenti per un film uscito in contemporanea
ai fatti e che dipinge con greve pessimismo il destino degli uomini che già
dalla scuola “sembrano piccoli operai”.
Pesante l’ambientazione, in un
inverno gelido di un sobborgo dell’industria milanese, freddo fuori e dentro
gli animi tra architetture funzionaliste e cappotti militari con colbacchi
pseudo sovietici.
Nessuna speranza per la gente
della fabbrica presa nell’ingranaggio che la stritola senza riuscire a venirne
fuori.
Facile il richiamo ai “Tempi
moderni” di Chaplin che già nel ’36 ne anticipava i temi; più insolito pensare
al “Fantozzi” di Paolo Villaggio che pochi anni più tardi associa tutti i
canoni della classe operaia all’emergente classe impiegatizia.
Splendida la colonna sonora di
Morricone, premiata al festival di Cannes in binomio con quella per “Il caso
Mattei”.
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