“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

domenica 20 ottobre 2013

Lo spazio bianco

di Francesca Comencini
Italia, 2009

Maria diventa madre in età matura di una bimba, al sesto mese di gravidanza. L’esperienza in Terapia Intensiva Neonatale, accanto alla figlia, la segna profondamente e le fa affrontare la durezza dei fatti suo malgrado, raggiungendo una nuova consapevolezza di sé.
Tratto dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella, “Lo spazio bianco” è uno dei pochi film che indaga lo spinoso argomento della prematurità. L’attesa, l’incertezza, la paura per la vita di un figlio, catapultano i genitori in una dimensione irreale fatta di ore d’immobilità di fronte ad un’incubatrice in cui i medici cercano di recuperare il tempo perduto. E mentre nel reparto la vita si congela, sospesa al ritmo di piccoli battiti di speranza, fuori prosegue inesorabile coi suoi impegni; difficile per chi vive tutto questo riuscire a trovare una collocazione, il ruolo perduto. Lo sdoppiamento esistenziale dei genitori richiede molta forza per rimanere concentrati e non perdere la testa. Il percorso obbligato, per alcuni molto lungo, per altri senza speranza, li costringe a vivere ora per ora senza possibilità d’intervento.
Margherita Buy impiega tutte le sue energie per tradurre in emozioni il dramma di Maria e riesce a farlo attraverso i suoi grandi occhi che campeggiano nelle inquadrature accecanti del reparto.
Ma se la routine quotidiana e la solidarietà tra genitori sono ben descritte, rimangono troppi “spazi bianchi” nella narrazione. I genitori risultano satelliti intorno ai figli, i medici distanti e i macchinari evanescenti. La scena asettica. Non è così: il suono dei monitor, delle pompe, delle macchine, sono i veri protagonisti e la morte è troppo spesso regina.
La visione poetica e edulcorata di Francesca Comencini lascia molte perplessità e pur volendo essere diretta non ci riesce. Il montaggio macchinoso e la scarsa profondità emotiva creano ulteriori barriere tra la vita in Tin e il mondo “che guarda”. Sarebbero serviti meno spocchia e più cuore per raccontare un incubo.

Deludente.

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