“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

lunedì 19 novembre 2012

L'uccello dalle piume di cristallo

L’uccello dalle piume di cristallo
Di Dario Argento
Ialia/Rft, 1970
Colore, ‘96

“E’ la malinconia, il cuore che gronda di emozioni e tutta la scena che gronda di musica”
“La casa dove si svolge la storia non è altro che un organismo vivente”
(Dario Argento)

Sam Dalmas, scrittore americano, assiste ad un tentativo di omicidio in una galleria d’arte; riesce a salvare la vittima ma l’assassino inizia a dargli la caccia. Intraprende un’indagine personale, certo di essere a conoscenza di un dettaglio che lo aiuterà a risolvere il giallo. Tra delitti e colpi di scena, giungerà ad un’inquietante conclusione.
Primo della trilogia sugli animali insieme a “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”, “L’uccello dalle piume di cristallo” è anche il capostipite della produzione di Dario Argento, padre del moderno horror all’italiana.
Tenuto a battesimo da padrini d’eccezione quali Vittorio Storaro per la fotografia ed Ennio Morricone per le musiche, l’allora poco più che ventenne Dario, scrive, gira e produce un giallo intelligente e denso di suspense che già prelude alla delirante esplosione di tensione e sangue, dei film futuri.
Figlio del suo tempo, con un’anima rock, dimostra di aver ben appreso le lezioni di maestri come Mario Bava che in questo film, ritorna in piccole citazioni tratte dal suo “6 donne per l’assassino”, in particolare. Il clichè dell’assassino in impermeabile, guanti e maschera, i delitti efferati e fantasiosi, le vittime fotografate come manichini e non donne in carne ed ossa, sono un continuo richiamo alla scuola di Bava che qui si arricchisce di una veste più concreta e meno manierista, tale da conferire maggior realismo ai fatti e per questo, maggiore spavento nello spettatore.
La paura, per Dario Argento, nasce dall’essere comune; l’assassino come una persona qualsiasi, anche noi stessi. Ecco la chiave del terrore che qui si presenta in tutta la sua essenzialità, sfrondata dall’apparato gore dei successivi anni ‘70.
L’assassino è guidato dal germe della follia che esplode ad un banale innesco e che pertanto resta imprevedibile quanto indomabile. Esseri umani come mine vaganti, pronti a deflagrare in tutto il loro orrore, trascinando con sé vittime innocenti quanto casuali. L’imprevedibilità dell’omicida è il segreto dell’angoscia che trasuda in tutta la sua opera, determinando una totale identificazione dello spettatore non tanto con la vittima, quanto coi protagonisti, sapientemente tracciati come “eroi per caso” coinvolti loro malgrado, incapaci di sottrarsi agli eventi.
Paladini in jeans e mocassini; gente disarmata e spaventata che incarna tutta l’umana pavidità di fronte alla morte, ma che procede incrollabile alla ricerca della verità, ipnotizzata da affascinanti sirene dal tetro richiamo.

“L’uccello dalle piume di cristallo” è un’opera prima significativa, in cui già coesistono tutti gli elementi che verranno sviluppati in futuro, in un crescendo di efferatezza e delirio che raggiungeranno il culmine di perfezione in “Suspiria”.

Il perfetto equilibrio tra effetti visivi e sonori fa scuola per le generazioni future.
Tanto la musica quanto la sua assenza, sono utilizzate per sottolineare dei momenti cruciali; il silenzio come musica emotiva e non uditiva, scatenata dalla tensione delle immagini e da quella accumulata nelle sequenza precedenti. Le voci, quasi in presa diretta, sono suoni duri che colpiscono con precisione lo spettatore, concentrando la sua attenzione sul dettaglio narrato, avvincendolo in una morsa d’angoscia che sale fino ad un momento di tale insostenibilità in cui la musica irrompe violenta e stridula, in una concezione quasi rumorista. Non già melodia, ma suoni di corde pizzicate, stridenti e stonate, alternate a canti di donne e sonorità meccaniche. Suoni protagonisti della vicenda, come il canto di un uccello o una folle risata scellerata.
Musiche come traccia ispiratrice per una vera scuola dark sintetizzata dai Goblin nei film successivi.
Il cinema di Dario Argento è musica per le orecchie e droga per gli occhi.
La raffinatezza delle immagini non cede mai completamente il passo alla violenza.
Le scelte scenografiche coadiuvano gli attori nella costruzione dei personaggi fino a rubar loro la scena con dettagli architettonici come scale a tromba triangolare, facciate di palazzi neoclassici, porte a vetri ad intercapedine.
Un’esplosione di luce, un bianco accecante, nella scena principale del film per descrivere la galleria d‘arte; il protagonista, come lo spettatore, sono messi in grado di carpire da subito la soluzione del giallo. Tutti gli elementi essenziali sono davanti ai loro occhi, come su di un palcoscenico. L’unica scena realmente illuminata è tale da insinuare il dubbio di aver visto il dettaglio chiave; è un gioco da illusionisti. Mostrare per meglio nascondere ed anche i successivi flash back in fermo immagine, serviranno ad alimentare la morbosa scoperta del particolare.
Le sculture fantasy presenziano la scena del tentato omicidio senza far ombra agli attori bensì conferendo una tetra alea di morte, semmai ce ne fosse stato bisogno, con la loro immota presenza gotica. Le sagome plumbee che si stagliano nel bianco rigore della scena fanno da cornice alla macchia rossa di una lei ferita a morte, che ha lo stesso rosso nei capelli e in quella supplice mano che implora aiuto. Una mano che ritorna, come immagine di disperazione in questo cinema dell’orrore, molto più carica e spaventosa, nella scena del delitto della medium in “Profondo rosso”.
Se gli interni celano misteri, cadaveri e assassini, illuminati da lame di luce e porte sul buio, gli esterni non sono da meno, che si tratti di un cascinale abbandonato nella nebbia o di un vicolo buio.
L’ambientazione romana con le sue strade d’acciottolato e i suoi palazzi antichi, trasuda un senso di desolazione. La fotografia ad ombre lunghe, contribuisce a dipingere una città senza scampo, cupa e desolata, disseminata di lamiere e palazzi fatiscenti, in totale sintonia con lo stato d’animo dello spettatore che vive l’angoscia di una città decadente che nasconde l’assassino e minaccia le vittime.
La scelta della costante penombra negli interni, anche in pieno giorno, obbliga l’occhio a strizzarsi alla ricerca di un dettaglio, innescando una concentrazione da scioccare con repentini flash in cui le lame affondano e il sangue sgorga sullo schermo o stenta a farlo, ma costringendo comunque lo spettatore a continuare a guardare.
E’ lo sguardo il vero principe dell’inquadratura; che sia un primo piano di occhi spaventati o la soggettiva dell’assassino, è comunque impossibile distoglierlo da ciò che accade, per un effetto di fascinazione che cresce durante il film e culmina solo svelando la verità, in un’avvincente tortura di movimenti di camera.

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